Affermo però con forza che, se dal punto di vista sanitario l’unica logica possibile è il contenimento, dal punto sociale, economico,organizzativo e psicologico, l’unica risposta possibile è la resilienza, estesa, in questa straordinaria evenienza, alle sue accezioni ed implicazioni più estese.
Alcuni amano definire questa condizione talmente intricata da farci passare le notti in bianco, un “Cigno Nero”, e senza dubbio si può dire che è una metafora appropriata.

“Ciò che chiameremo Cigno nero (con la maiuscola) è un evento che possiede le tre caratteristiche seguenti. In primo luogo è un evento isolato, che non rientra nel campo delle normali aspettative, perché niente nel passato può indicare in modo plausibile la sua possibilità. In secondo luogo, ha un impatto enorme. In terzo luogo, nonostante il suo carattere di evento isolato, la natura umana ci spinge a elaborare a posteriori giustificazioni della sua comparsa, rendendolo spiegabile e prevedibile. Riassumo le tre caratteristiche: rarità, impatto enorme e prevedibilità retrospettiva (ma non prospettiva)”.

Così lo descrive il genio di Nassim Nicholas Taleb, che ha proposto questa metafora nel suo libro “Il Cigno Nero”[1], lettura che consiglio a tutti in queste notti bianche invece di andare a scorrazzare in giro, a partire dal forse ancor più interessante sottotitolo: “Come l’improbabile governa le nostre vite”.

Già, come l’improbabile governa le nostre vite, il momento in cui ci si sente più fragili e si comprende che viviamo nell’ “illusione del controllo”. Avete presente il “tanto a me non succede”? Poi arriva il Cigno nero. Più volte nella vita si devono fronteggiare situazioni avverse, ma spesso sappiamo che prima o poi potrebbero accadere, ma il Cigno nero no, quello lo accantoniamo come possibilità perché è troppo improbabile. Taleb sostiene che bisognerebbe imparare a divenire “antifragili”, Leggete queste sue parole:

“quando una persona è fragile, è necessario che le cose vadano alla lettera come da programma, evitando al massimo le deviazioni, in questo caso più dannose che inutili. É per questo che il fragile ha bisogno di un approccio previsionale molto dettagliato mentre, viceversa, i sistemi previsionali portano fragilità. Antifragile è invece chi desidera le deviazioni e non si preoccupa delle possibili dispersioni dei risultati che il futuro può portare, perché sa che saranno quasi tutti utili […] Se ogni tentativo vi fornisce informazioni su ciò che non funziona, potete concentrarvi su una soluzione, e così ogni tentativo diventa più utile e più simile a un investimento che a uno sbaglio. Senza contare che, ovviamente, lungo il percorso scoprirete nuove cose.”[2]

Poi Taleb prosegue con varie indicazioni ed ipotesi sull’antifragilità, da leggere, ne vale la pena, quanto vorremmo tutti oggi scoprirci antifragili. In fin dei conti la lotta contro il COVID19 è una lotta per l’antifragilità: non lo avremmo mai pensato, non eravamo preparati, ma se impareremo dagli errori fatti ci avvicineremo ad essere meno fragili.

Alcuni autorevoli colleghi vedono, in parte anche correttamente, nell’idea di antifragilità un’evoluzione e una forza superiore del concetto di resilienza, ma non sarà certo qui che mi metterò a disquisire sulle differenze e su quale dei due stati debba essere prevalente; questo è un “saggio emergenziale”, non accademico.

Mi limito a dire che l’antifragilità è un concetto affascinantissimo a cui tendere, ma è un lungo percorso: pensate alle parole di Taleb sopra e immaginatele in opera nella maggior parte delle nostre organizzazioni, che vivono di previsioni, controlli, tutto a breve se non brevissimo e che dovrebbero ripensare completamente alla maggior parte dei loro meccanismi di funzionamento, e forse del loro management.

Vi faccio un esempio: proprio oggi, mentre sto scrivendo questo articolo, mi ha chiamato un amico che ha partecipato a miei corsi da 10 anni in qua, dicendomi che ha ricevuto una telefonata dal suo AD tedesco il quale gli ha detto che è dispiaciuto di quanto sta accadendo in Italia e delle implicazioni sulla filiale, ma che in ogni caso dovrà essere garantito l’EBTDA previsto per il 2020, il 12,5%. Antifragili, incazzatevi.

E la resilienza, che cosa è esattamente? Fino a poco tempo fa era un concetto quasi sconosciuto nel linguaggio corrente, e quasi inutilizzato nelle organizzazioni; diventò di dominio pubblico in occasione dell’attentato alla metropolitana di Londra del 7 Luglio 2005, quando l’allora sindaco Ken Livingston come primo commento disse al mondo “we have to be resilient”, con ciò volendo affermare che quell’evento terribile non doveva impedire ai londinesi di rinunciare alla loro vita, ma di cambiare qualcosa, di fare più attenzione, vigilanza, darsi sostegno reciproco, un’occasione di apprendimento che, senza poter escludere il ripetersi di altri gesti simili, doveva generare un sentimento di rinascita senza abbandonarsi al terrore.

Questa è la resilienza, l’attitudine e la capacità di far fronte in maniera non – negativa a eventi avversi, cercando di farne occasione di apprendimento e di trasformazione e quindi a volte, di trarne vantaggio (le famose “minacce che diventano opportunità”, ma che dette così sono insopportabili per stucchevole retorica). Ma quanta energia questo ci richiede, quanta forza interiore, quanto desiderio di vivere e di imparare, quanto sostegno, quante di tutte queste cose messe insieme.
Di resilienza, quindi, ne possediamo tutti quanti in una certa entità, perché è indispensabile per affrontare gli eventi della vita, solo che va detta una cosa determinante: noi non sappiamo quanto siamo resistenti fino al momento in cui non abbiamo bisogno di essere resistenti, ce ne accorgiamo lì, proprio in quei momenti.

Non mi stancherò mai di dirlo. Mai. Sapete perché? Perché ci spiega come agire per rafforzare la nostra resilienza nei momenti difficili: la resilienza è come allenarsi per una maratona, finché non inizi a fare 5 – 10 – 15 – 20 km. non saprai mai qual è il tuo limite “naturale”, e soltanto quando lo avrai capito allora potrai fare allenamenti più specifici per vincere la fatica, convincerti che puoi arrivarci, e forse un giorno farai davvero una maratona, o forse no, ma saprai fino a dove potrai arrivare, e poi magari riprovarci.

E allora sfidiamo questo Cigno nero allenandoci alla resilienza, per provare a diventare meno fragili. E non dimentichiamoci che il vero Cigno nero non è la pandemia (nella storia dell’umanità ce ne sono sempre state, ogni tanto arrivano, poi ci se ne dimentica), ma un altro aspetto: l’interruzione coercitiva delle relazioni sociali, cosa mai vista da diverse generazioni (da noi), tema dei maggiori investimenti mai fatti negli ultimi decenni di globalizzazione; quello che nessuno considerava possibile non era il virus, ma l’impossibilità di muoversi, relazionarsi, toccarsi, divertirsi insieme, lavorare. E non scherziamo per favore, lo smart work è uno dei modi di lavorare, ma non è il lavoro. Questo in una prima fase fa esplodere tutta la gamma delle emozioni negative. La tristezza, l’ansia, la paura (negozi presi d’assalto), la rabbia (gente che reclama l’avvento di una dittatura, rivolte nelle carceri), la vergogna (spesso chi si ammala si vergogna, vi rendete conto?).

Se prevarranno, ad ogni livello – organizzazioni comprese – queste emozioni, sarà un disastro di regressione sociale, economica e psicologica, e verrà fuori il peggio.
Ma se prevarranno le risorse di resilienza, allora sarà tutto diverso, avremo sofferto ma imparato qualcosa, e saremo meno fragili.
E allora quali sono le risorse di resilienza che scopriremo ora di avere in abbondanza, o in maniera insufficiente, influenzando l’esito individuale e collettivo?

La grinta, vale a dire la perseveranza ostinata, tenace e talvolta feroce (in senso agonistico), che ci aiuta a resistere quando abbiamo la sensazione che tutte le altre risorse si stiano esaurendo: affrontiamo il Cigno nero con grinta ed anche lui imparerà a rispettarci di più.

L’autonomia, che è tutt’altro che sentimento d’indipendenza e di poter fare quello che si vuole a prescindere, bensì la consapevolezza di essere una causa, piuttosto che un effetto. Autonomia vuol dire che siamo noi a decidere consapevoli però che se facciamo errori che hanno impatto sugli altri, noi ne siamo la causa (chi non rispetta le regole, piacciano o meno, non è resiliente, è solo una persona che diventa causa).

La determinazione, che consiste in quattro aspetti: la risoluzione (essere orientati a un fine, quello di uscire migliori da una situazione avversa), la pazienza (aspettare, differire la gratificazione delle cose che normalmente ci gratificano, aspettare con convinzione e tenacia per ripristinare le gratificazioni al momento opportuno), la persistenza (di solito sono gli sforzi minuscoli che si protraggono nel tempo che fanno la differenza), e la tenacia (quella volontà che attinge ad una forza antica e selvaggia che abbiamo in noi, per sopravvivere). La vitalità, che significa non abbandonare mai il nostro corpo: se non ne abbiamo cura, soprattutto nei momenti difficili, saluti a grinta e determinazione.

Riflettiamo su questi aspetti, e coltiviamoli, alleniamoli ora più che mai. E nelle nostre notti bianche, quando il Cigno nero disturba la nostra intimità, ricordiamoci che un po’ di empatia (pensieri, emozioni ed azioni empatiche fanno bene al cervello, che è il frutto della nostra esperienza), compassione (comprensione per chi soffre e si presta mentre non lo vediamo), e virtù unilaterale (quando ci comportiamo in maniera rispettosa e responsabile anche senza un decreto che ci obbliga a farlo), ci daranno sollievo e rafforzeranno la nostra resilienza.

Così magari le notti bianche non diventeranno notti in bianco.

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