Pubblichiamo queste riflessioni di Cesare Montesano, tecnico di produzione delle vernici in polvere di lungo corso e ora docente all’ISM – Industrial Short Master – giunto alla dodicesima edizione, per stimolare una riflessione sullo stato di completa stasi in cui si trova il settore della verniciatura in polvere. Seguendo il suo racconto si evince che la tecnologia è ormai ferma da 20 anni. Ciò significa che, come sempre succede, se non c’è avanzamento non si rimane dove si è ma si arretra.
Cosa sta succedendo al settore? Lo stato di crisi in cui ci troviamo può essere attribuito a una certa mancanza di “coraggio” nel percorrere nuove strade? Consolidare i rapporti con le università, luoghi dedicati alla ricerca, potrebbe offrire nuove opportunità anche alle aziende? Questo stallo è dovuto anche a una carenza di formazione? Il dibattito è aperto.

Un percorso da fine anni 60 ai giorni nostri
L’altro giorno, conversando con un architetto esperto del settore, ci siamo chiesti: a che punto siamo con le vernici in polvere? Cosa c’è di nuovo?
Bella domanda, ma forse un po’ scoraggiante. Sembra che tutto sia rimasto fermo… a prima del 2010.
La ricerca di nuove materie prime, tecnologie applicative e prodotti vernicianti… ma a che punto siamo davvero?

Se ripensiamo al periodo tra gli anni ’70 e ’80, sia in Italia che all’estero, il settore ha vissuto un grande sviluppo, seguito poi da un evidente rallentamento. Cosa è mancato per mantenere quel ritmo di crescita?
È vero che i primi prodotti termoindurenti a uso funzionale, come quelli per le pipeline, sono nati all’estero (USA e Regno Unito). I primi tentativi di produzione venivano fatti con impastatrici, ma con enormi difficoltà: masse di materiale che si bloccavano, semipolimerizzazione incontrollata e altri problemi tecnici. Fortunatamente, qualcuno intuì il potenziale degli estrusori, già utilizzati per i materiali termoplastici e, forse, persino per la produzione della pasta!
Nel mio percorso professionale, che ormai si estende per diversi decenni, ho visto da vicino questa evoluzione. Ho iniziato nel 1968 con estrusori molto lunghi, che all’epoca producevano appena 50 kg/h, rispetto ai 2000-3000 kg/h di oggi. In quegli anni, la maggior parte dei prodotti era destinata all’elettrotecnica: isolamento di motori, bobine e verniciatura di tubi, come quelli della Dalmine. L’applicazione ad alto spessore in un’unica mano era uno dei principali vantaggi delle vernici in polvere, insieme all’assenza di solventi, un aspetto già allora di grande importanza.

Negli anni ’60 e ’70, il mercato italiano delle vernici in polvere era ancora agli albori e dominato da tre aziende: Deniel di Cinisello Balsamo, Savid di Como e Appia di Bassano. Savid e Appia iniziarono acquistando licenze dall’estero, mentre Deniel, autodidatta, si specializzò in prodotti su misura.
I principali settori di applicazione erano scaffalature metalliche, carpenteria, valvole, arredamento, ruote di macchine agricole e persino vetro, come le bottiglie di liquori. All’epoca esistevano solo vernici in polvere epossidiche, utilizzate anche per applicazioni esterne. La verniciatura avveniva tramite applicazione elettrostatica oppure a letto fluido su pezzi preriscaldati, una tecnica che permetteva di ottenere spessori elevati (400-500 micron) e garantiva un’alta resistenza e isolamento elettrico, quando necessario.
Il mercato italiano si mostrò molto dinamico e, già nei primi anni ’70, grandi aziende iniziarono a investire nelle vernici in polvere. Fiat, ad esempio, adottò questa tecnologia per le ruote della 127, Bticino per canaline e quadri elettrici, mentre i produttori di radiatori in alluminio contribuirono a dare un forte impulso al settore.
Parallelamente, si assistette a un’evoluzione degli impianti e dei prodotti di pretrattamento: si passò dal semplice lavaggio in trielina ai fosfosgrassaggi amorfi e successivamente alla fosfatazione cristallina. Questo miglioramento incrementò notevolmente le prestazioni dei prodotti vernicianti, anche se sarebbe più corretto parlare di “cicli di verniciatura”, considerando l’importanza del pretrattamento nella qualità del risultato finale.
A metà degli anni ’70, grazie all’introduzione di nuove materie prime, iniziammo a produrre i primi poliesteri OH/isocianici (poliuretanici), sia aromatici che alifatici. Gli isocianati erano bloccati in caprolattame, consentendo una maggiore stabilità del prodotto.
La polimerizzazione di questi prodotti, così come quella delle vernici epossidiche, avveniva a temperature piuttosto elevate: circa 200°C per 15-20 minuti. Tuttavia, questo processo si scontrò rapidamente con la prima crisi energetica, che spinse il mercato e i ricercatori a sviluppare prodotti a bassa temperatura (BT).
Già intorno al 1975, infatti, riuscimmo a formulare vernici epossidiche in grado di polimerizzare a temperature inferiori: 140-150 °C per 30 minuti oppure 160 °C per 20 minuti, riducendo così il consumo energetico e migliorando l’efficienza produttiva.
Ovviamente, nello sviluppo di nuovi prodotti bisognava considerare anche i tempi di pretrattamento e le masse da verniciare.
Alla fine del decennio, furono introdotti gli epossipoliesteri, che ampliarono il mercato grazie alle loro ottime prestazioni e ai costi inferiori rispetto agli epossidici e ai poliuretanici alifatici. L’aromatico, invece, risultava più competitivo e veniva utilizzato non solo per applicazioni interne, ma in alcuni casi anche per esterni.
Tuttavia, un aspetto critico era la presenza del caprolattame, una sostanza che, durante la polimerizzazione a temperature superiori ai 140-150 °C, si sbloccava ed evaporava nei forni di cottura, finendo inevitabilmente in atmosfera. Sebbene si trattasse di una quantità relativamente ridotta (circa 1,5-3% del prodotto), si trattava comunque di una sostanza inquinante e irritante. Va detto, però, che il suo impatto ambientale era nettamente inferiore rispetto alle vernici liquide, che contenevano fino al 40-50% di solventi volatili.
Le vernici in polvere offrivano un significativo vantaggio ambientale, essendo molto meno inquinanti rispetto alle vernici liquide e con rischi di incendio o scoppio praticamente nulli.
Un altro grande punto di forza era l’altissima resa: circa il 98-99% del prodotto veniva effettivamente utilizzato, con scarti minimi, poiché la polvere in eccesso poteva essere quasi interamente recuperata e riutilizzata.
Di conseguenza, il mercato si spostò progressivamente dalle vernici liquide alle vernici in polvere. In Italia, questo sviluppo portò alla nascita di nuovi produttori, tra cui Max Meyer, IGPulver/Pulverit, Pulverlac, Akzo Nobel, Europolveri, Inver e altri. Il paese divenne così uno dei principali poli produttivi a livello europeo, con un’industria altamente competitiva ed esportazioni che rappresentavano circa il 30-40% della produzione totale.

Tra l’inizio e la metà degli anni ’80, la ricerca su nuove materie prime portò allo sviluppo dei poliesteri carbossilati (COOH), induriti con TGIC (triglicidilisocianurato). Grazie alla loro elevata resistenza ai raggi UVB e agli agenti atmosferici, oltre al loro aspetto estetico gradevole, questi prodotti diedero un grande impulso al mercato dell’architettura, in particolare per i profili in alluminio pretrattati con cromatazione e fosfocromatazione. Si stima che circa il 30% delle vernici in polvere sia destinato a questo settore, declinato in una vasta gamma di effetti e colori.
Il mercato si espanse anche ad altri manufatti per esterni, come componenti per automobili, macchine agricole e industriali, illuminazione e arredo urbano.
Negli anni ’80 e ’90, però, emersero preoccupazioni sulla tossicità di alcuni materiali utilizzati, sia in Italia che nel resto d’Europa. In particolare, si faceva uso di pigmenti a base di piombo (Pb) e cromo (Cr), noti per la loro cancerogenicità, oltre al TGIC, all’epoca unico indurente per il poliestere.
L’industria delle vernici in polvere, dai produttori di materie prime ai formulatori di vernici, si impegnò a trovare alternative, sostituendo progressivamente queste sostanze. I pigmenti tossici furono eliminati per primi, seguiti, a metà anni ’90, dalla sostituzione del TGIC con il Primid, ancora oggi ampiamente utilizzato.

Alla fine degli anni ’80 e all’inizio degli anni ’90, molte case produttrici di elettrodomestici in Italia iniziarono ad adottare le vernici in polvere, utilizzando cicli a mano unica o a due mani su primer elettroforetici. Fu richiesto uno spessore sempre più sottile, passando dai 70-90 micron ai 30-40 micron, per motivi estetici e di riduzione dei costi. Questo rappresentò un importante sviluppo per la produzione delle vernici in polvere e per l’adozione di impianti sempre più automatizzati e sofisticati, con particolare attenzione alla sicurezza degli operatori.
Contemporaneamente, alcune aziende iniziarono a sviluppare vernici per il settore automobilistico, tra cui clearcoat a base acrilica e primer in polvere per l’anticorrosione, simili ai zincanti.
Negli anni ’90 e 2000, fummo tra i primi in Italia a sviluppare prodotti per coil in ferro destinati agli elettrodomestici, raggiungendo velocità di produzione di circa 20 m/min (con la ditta Lampre), anche se non ancora sufficienti per competere con i grandi volumi di mercato. Per quanto riguarda l’alluminio, le polveri per coil erano molto richieste grazie alle loro prestazioni superiori, con velocità di produzione che si aggiravano intorno ai 10-15 m/min. Sebbene queste velocità fossero ancora inferiori rispetto a quelle delle vernici liquide, le prestazioni tecniche delle polveri ne garantivano comunque un utilizzo efficace.
Alla fine degli anni ’90, fu completata l’eliminazione totale dei pigmenti nocivi e del TGIC, sia in Italia, uno dei mercati più importanti e attenti d’Europa, che negli altri paesi europei. Nonostante ciò, c’erano ancora importatori che, poco attenti, introducevano prodotti di dubbia qualità nel mercato.

Nel periodo 2000-2010, fu fatto un grande lavoro di ricerca e sviluppo su materie prime e prodotti finiti, con risultati eccellenti in termini di prestazioni, estetica e costi più bassi. I cicli di produzione si fecero molto più veloci rispetto alle vernici liquide. Un aspetto importante fu lo sviluppo di nuove applicazioni per il settore legno/MDF (medium density fiber), utilizzando tecnologie avanzate come l’irraggiamento IR, già ampiamente usato per il ferro, che riduceva i tempi di polimerizzazione e il consumo energetico. Inoltre, si sperimentò l’uso di prodotti fotopolimerizzabili abbinati a sistemi UV e IR, per evitare di stressare i materiali legnosi e similari, spingendosi anche su alcune plastiche.
Alcune realtà industriali hanno adottato con successo queste tecnologie ma, rispetto al potenziale, il loro impiego è ancora limitato. Sempre in quel periodo, furono sviluppati prodotti IR+UV anche per metallo (come per pompe, motori elettrici e pressofusioni), con grandi vantaggi nel ridurre i tempi e le temperature di polimerizzazione (pochi minuti a 120-130°C), utilizzando forni molto più compatti (da 30-40 metri a soli 2-3 metri), semplificando i cicli di produzione e assemblaggio di materiali diversi.
Questi cicli potrebbero essere applicati anche nel settore degli elettrodomestici, dove si richiedono bassi spessori e alte velocità di produzione. L’integrazione con nanotecnologie, ormai ampiamente diffuse, e l’introduzione dell’intelligenza artificiale, che favorisce una maggiore automazione degli impianti, rende tutto questo ancora più facile. Queste innovazioni, unite a un’attenzione crescente ai costi e, soprattutto, alla sostenibilità, stanno migliorando notevolmente i processi produttivi.
Nel corso degli anni, molte aziende hanno cambiato nome o sono state acquisite da grandi multinazionali (alcune delle quali ho già citato, e mi scuso per le eventuali omissioni). Questo ha contribuito a un maggiore sviluppo e ha dato un forte impulso alla ricerca. Come sempre accade, la concorrenza ha svolto un ruolo fondamentale nello stimolare e accelerare l’innovazione.

Quali sono oggi i temi principali del settore? Cosa c’è di nuovo? Sembra che la ricerca si sia arenata: gli investimenti sono limitati e il mercato non spinge abbastanza verso l’innovazione. Certo, si stanno facendo progressi sui biopolimeri e si parla sempre più di sostenibilità, economia circolare, e di prodotti duraturi, con una vita utile di 50 anni all’esterno, insieme alla riduzione della CO2.
Tuttavia, alcuni mercati faticano a decollare, come quello delle vernici a polvere per l’automotive e per il legno/MDF. La domanda è: cosa c’è dietro a questa stagnazione? La cultura e la consapevolezza sono aumentate e oggi esistono corsi universitari che trattano questi temi, ma c’è ancora un ampio margine di crescita. Le università hanno un enorme potenziale in termini di cervelli e attrezzature, e potrebbero fare molto di più in termini di ricerca applicata. Un maggiore coinvolgimento delle università con l’industria potrebbe favorire innovazione e sviluppo.

Eppure, nonostante le opportunità, sembra che tutto resti in silenzio. Perché? Potrebbe esserci una mancanza di volontà da parte delle industrie di investire in nuove tecnologie, o forse un gap tra le richieste del mercato e la capacità di risposta dell’intero settore. La sfida rimane: come rilanciare veramente l’innovazione e colmare questo divario?

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